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Quando il “compagno di cella” di Riina ordinò: “Chiamate quelli di Francavilla e Mesagne, sono più bravi”

Alberto Lorusso e Totò Riina durante l'ora d'aria nel carcere di Opera
Alberto Lorusso e Totò Riina durante l’ora d’aria nel carcere di Opera

Temeva di finire i suoi giorni in carcere Alberto Lorusso, allora semplice boss di paese – il paese era Grottaglie – ai margini della Scu, finito dietro le sbarre per droga ed estorsione. Sapeva che se avessero trovato quel cadavere lui, che in quel pozzo ce lo aveva messo, non sarebbe più uscito di galera. Il suo ex braccio destro, Ciro Carriere, aveva cominciato a collaborare con la giustizia. E prima o poi avrebbe aiutato gli inquirenti a risolvere anche quel mistero; spiegando cosa fosse successo al 22enne Fulvio Costone, misteriosamente scomparso nel nulla nel 1990, chi l’avesse ammazzato e quale pozzo lo avesse inghiottito. Così dal carcere di Taranto, nel quale attendeva febbricitante la sua sorte, ordinò ai suoi uomini di spostare il corpo.

Alberto Lorusso
Alberto Lorusso

Ci provarono “quelli di Grottaglie” a eseguire il comando, ma fallirono. Per Lorusso non c’era tempo da perdere. I suoi non sarebbero mai stati in grado di portare a termine, in modo pulito, un lavoro tanto delicato. Occorreva gente esperta, uomini del mestiere, criminali che ai cadaveri ci avevano fatto il callo più di un becchino. Occorreva la mafia. E lui sapeva a chi rivolgersi: ai suoi vicini. “Chiamate quelli di Francavilla e Mesagne”, intimò ai suoi. “Quelli – aggiunse – sono più bravi”. Ma fu proprio questa frase a incastrare Lorusso. Perché ad ascoltarla non furono solo i suoi uomini, ma anche gli investigatori che nascosero una cimice durante quel colloquio in carcere, registrando ogni parola, ogni ordine. Lorusso si incastrò con le sue mani. Il cadavere di Costone, fu trovato, e anche la storia messa su per ammantare l’omicidio di un velo d’onore e giustizia – si disse, falsamente, che avesse stuprato la donna di Lorusso – fu smontato. 

Da allora la parabola criminale e personale di quel campetto di paese sembrò destinata all’oblio. Fino a poco meno di un anno fa il suo nome pareva destinato ad ammucchiare polvere lì, tra gli archivi di nera e giudiziaria meno consultati, dove si affastellano l’una sull’altra le storie criminali di tanti piccoli boss di paese che veri boss, a dispetto delle ambizioni, non lo sono diventati mai. Da alcuni mesi invece quel nome e quel cognome, Alberto Lorusso, hanno travalicato gli angusti confini dell’anonimato, per assurgere agli onori della più discussa cronaca nazionale. I suoi meriti criminali non sono mutati, restano quelli di un tempo, quando nella sua Grottaglie, muovendosi in precario equilibrio fra i clan della Scu tarantina in guerra tra loro, riuscì ad accaparrarsi famelico una fetta di torta del lucroso business della droga. Ciò che invece è cambiato nella biografia di Alberto Lorusso è la compagnia. Come da mesi raccontano tv e giornali Lorusso, condannato al 41/bis pur non essendo mai stato un “capo” ai vertici della Scu, divide le sue ore d’aria in carcere con lui, col capo dei capi, con Totò Riina. Lorusso, a favor di telecamera e cimici, ne raccoglie su e giù per il cortile confessioni e propositi – tra cui quello di ammazzare il pm Di Matteo – dicendo la sua, ma soprattutto ascoltando in silenzio, aprendo bocca solo di tanto in tanto per confermare, annuendo, al fianco di un macellaio, di un generale sanguinario privato per sempre del suo esercito.

Emilio Mola

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