Zitta zitta, negli anni, la banca aveva prelevato dal conto di un’impresa sua cliente un’ingente quantità di soldi a titolo di interessi non pattuiti (anche sugli stessi interessi, cosiddetto anatocismo) e commissioni di massimo scoperto. Così, quando se n’è accorto, il legale rappresentante di una Srl dell’hinterland milanese si è rivolta a un avvocato, Giuseppe D’Ippolito del foro di Taranto, per chiedere indietro il suo denaro.
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Il legale ha quindi citato in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano l’istituto di credito pretendendo la restituzione di circa 200mila euro. La banca ha però a un certo punto implicitamente ammesso almeno parte delle sue responsabilità, decidendo di scendere a patti con il correntista. Quest’ultimo ha rinunciato a ogni altra pretesa e si è “accontentato” di comporre in via bonaria la controversia, accettando un’offerta onnicomprensiva di 80mila euro.
Il punto fondamentale è, in estrema sintesi, proprio quest’ultimo: «L’assenza, cioè, di patti tra istituto di credito e cliente – spiega l’avvocato D’Ippolito – con quest’ultimo che non era stato adeguatamente informato né aveva sottoscritto, e quindi accettato, quei costi aggiuntivi, in termini commissioni di massimo scoperto, giorni di valuta, capitalizzazione trimestrale e interessi ultralegali, rispetto a quelli ordinari derivanti dalla semplice tenuta del conto».
In buona sostanza, non era stata osservata alla lettera – come implicitamente ammesso dal convenuto, che ha deciso di chiudere la questione con una transazione – il Testo unico bancario.