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Oria, “Sono nato con la divisa e con la divisa voglio morire”, ricordo del capitano Dell’Aquila, morto nello stesso giorno di Borsellino

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di Eliseo Zanzarelli

19 luglio 2015. “Sono nato con la divisa e con la divisa voglio morire”. Era il 17 novembre 2014, quando il capitano Emilio Dell’Aquila pronunciò questa frase, dopo che il commissario prefettizio Pasqua Erminia Cicoria gli aveva chiesto di scegliere tra il comando della polizia locale e il settore Attività produttive del Comune di Oria. Convinto più che mai, rimase al suo storico posto, ottenuto quasi per caso agli inizi del nuovo millennio. Restò lì, il comandante, a dirigere i “suoi” agenti, sempre più pochi man mano che passavano gli anni e la spending review si abbatteva, sì come mannaia, sull’efficienza degli enti locali. Un cruccio, l’organico ridotto, che si è portato con sé fin nella tomba. Da qualche giorno aveva paradossalmente anche riavuto indietro quel settore Attività produttive, guarda caso rimasto arenato, immobile, cristallizzato, proprio dalla fine dello scorso anno, dal giorno in cui non se n’era più  occupato Dell’Aquila.

Lo scorso pomeriggio, non se n’è andata una persona qualsiasi, ma un alto funzionario che ha scritto importanti pagine del Comune di Oria, un ente che deve a lui buona parte della sua storia più recente.

Una personalità forte e discussa, quella del capitano, che nei suoi tanti anni di servizio si è fatto una miriade di amici, ma anche tantissimi nemici. Se ne sarebbe andato in pensione, dopo mille polemiche, tra poco più di un anno. Diceva di non vederne l’ora, ma non era così: Emilio Dell’Aquila era il suo lavoro e il suo lavoro era Emilio Dell’Aquila, a tutte le ore del giorno e persino della notte. In fondo, non era mai a riposo. Mai. Non ce la faceva. Neanche quando, spesso, decideva di andarsene in campagna e di dedicarsi alle sue amate colture. Come ieri, nel giorno forse più torrido di questa torrida estate. 

Nonostante la gloriosa carriera, le centinaia di specializzazioni e gli innumerevoli hobby – dall’elettronica alle comunicazioni, dalla fotografia all’alta tecnologia, ai beni archeologici, dalla flora alla fauna – amava ripetere che da là proveniva, dalla campagna, e là un giorno gli sarebbe toccato tornare, per sempre. Là gli sarebbe piaciuto finire. Là, in campagna, si è spento, all’improvviso, e di sicuro prima di quanto avrebbe immaginato.

Punto di riferimento per numerosi colleghi dei comuni limitrofi, che puntualmente lo chiamavano per chiedergli consiglio o semplicemente conforto, a Dell’Aquila si deve – tra le altre cose – l’avvio dell’inchiesta sugli abusi al castello di Oria, poi sfociata nel rinvio a giudizio dei proprietari e di diverse altre persone tra tecnici e funzionari della Soprintendenza. Il castello: un suo grande pallino. C’è anche la bozza di un libro, nella cassaforte del suo ufficio, che prima o poi avrebbe pubblicato: una volta a riposo, diceva. Tante le immagini, gli aneddoti, i retroscena da lui raccolti. “Il tempo è, e sarà sempre, galantuomo”, asseriva. Avrà ragione anche su questo.

Il castello era, è Oria. E il capitano Dell’Aquila era un oritano doc. Una di quelle figure la cui memoria neppure la morte – unica cosa alla quale, per definizione, non vi è rimedio – potrà cancellare.

Emilio per gli amici, signor comandante per i nemici, comandante per i conoscenti, Dell’Aquila era soprattutto un uomo. Come ognuno di noi, come ogni uomo, come ogni donna, aveva le sue simpatie e le sue antipatie, i suoi pregi e i suoi difetti, i suoi segreti. Voleva bene, era benvoluto, amava, era amato, era capace di odiare. E di suscitare odio, come quando, intorno alla metà degli anni ’90 – periodo difficile, quello, per Oria, periodo di “corvi”, minacce e lettere minatorie rigorosamente anonime – una bomba gli squassò la sua casa di villeggiatura. Era fatto così: prendeva posizione, sempre e comunque. O lo comprendevi o finivi per detestarlo. O  ci entravi in sintonia, pur con mille “se” e altrettanti “ma”, o era meglio evitare persino di provare a contrastarlo. Di sicuro non era auspicabile per alcuno ritrovarselo contro poiché, puntiglioso e profondo conoscitore e interprete delle normative com’era, avrebbe sempre trovato il modo per avere ragione o, almeno, per non avere torto.

Tanto era rigido, a volte, da aver multato in almeno due circostanze suo figlio per aver parcheggiato la sua auto in divieto di sosta. Occhio di riguardo? Macché! Il figlio del comandante multato da suo padre comandante. Era fatto così, prendere o lasciare.

“Se credi in qualcosa, non ti arrendere mai e con il… naso e le capacità che ti ritrovi, farai strada”, uno dei consigli e insieme una delle premonizioni rivolti da lui, ormai diversi anni fa, a un allora giovane cronista come il sottoscritto. E come dimenticare le chiamate per avvertire: “Stai attento, guarda che le cose non stanno così…”?. Stop, chiuso, neanche il tempo di chiedergli: “Perché, signor comandante, comandante, Emilio?”. Inutile richiamare, cercare spiegazioni, tanto poi non rispondeva. Era quello il suo modo e quel modo andava rispettato. Lo capii dopo un po’, dopo tante incazzature, ma lo capii. Era come quando il maestro delle elementari ti dava due bacchettate nelle mani, allora che ancora si poteva, e tuo padre, anziché incazzarsi, diceva: “Solo due gliene hai dato?”.

Da un certo punto in poi, però, le conversazioni tra noi due – tra me e il signor comandante, il comandante, Emilio, nell’ordine – si erano fatte più intense, spontanee e confidenziali. Un rapporto cresciuto, per me quell’essere finalmente all’altezza, quel fidarsi reciprocamente che mi gonfiava il petto d’orgoglio e riempiva i discorsi di contenuti. Si parlava a lungo e di tutto, io ed Emilio (“Ancora comandante mi chiami? Io per te ormai sono Emilio!”, sbraitava): dalle questioni di lavoro alle simpatie-antipatie personali, dalla caccia alla pesca, dai pettegolezzi alla politica. Di tutto. Ed era sempre uno spasso, una discussione, talora un litigio o semplicemente una chiacchierata tra un “va bene?”, un “hai capito?”, un “mi sono spiegato?” – i suoi tipici intercalari – e l’altro. L’ultima chiamata solo un giorno fa. L’argomento? Quello che ultimamente gli teneva impegnati i giorni e le notti: il castello, simbolo stesso di Oria, della sua Oria, simbolo che sentiva suo e che immaginava di tutti.

Se n’è andato con lui, con il capitano Emilio Dell’Aquila, insomma, un gran bel pezzo di storia di Oria. Il soldato che diventò ufficiale, l’agente che, in poco tempo e sul campo, diventò tenente, poi capitano, cavaliere al merito della Repubblica e infine comandante, discusso comandante, non è più tra noi.
Non si sa come, non si sa perché, ma non c’è più. E quel Dio in cui credeva, o forse solo il fato, ha voluto che se ne andasse nello stesso giorno in cui, esattamente 23 anni fa, se ne andò Paolo Borsellino. Solo coincidenze, forse.

Di certo c’è che se l’obiettivo di noi mortali sulla Terra è quello di lasciare una traccia, nel bene o nel male, sappi che tu, Emilio, ne hai lasciata più d’una.

Che la terra ti sia lieve e, ora che puoi, ora che devi, riposa in pace, capitano, mio capitano! 

 

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